Versione italiana - Pagina 4 di 4 - Home page -Download intero documeto- |
Potrebbe
esservi ancora un dubbio residuo, che si affida alle parole di Tarquinia Molza: non vi può essere anche qualche responsabilità del
marito se la donna commette adulterio? Perchè ella sola allora dovrebbe portare il peso dell’infamia? E qui interviene qualche concessione da parte di Romei: Sendo la
moglie in potere del marito e sotto il suo governo, pare ch’egli
non possa peccare senza qualche colpa del marito, come quello che o per proprio
consenso, o per mal governo sia stato di tal mancamento cagione[1]. Ma il riconoscimento di
una qualche possibile corresponsabilità è solo la
premessa, a ben guardare, per affermare ancora una volta la signoria dell’uomo
e per ritornare alle premesse, e negare con ancora maggiore forza qualsiasi
relazione della donna diversa dal codice familiare: Non potendo - rispose il Gualengo - l’uomo
sempre guardarsi dalle insidie, né provvedere a
quelle cose ch’egli non sa, questo tale non perderebbe l’honore,
se ben non potrebbe fare che in qualche modo non restasse tocco, e non scemasse
di reputatione presso coloro che della moglie
sapessero l’adulterio: nondimeno questo tale non potrebbe essere ricusato in parangon d’honore, se non si
facesse fare prova ch’egli tolerasse la dishonestà della moglie per utile che ne traesse, o per
semplicità, o per sciocchezza, lasciandola andar a luoghi dishonesti,
o praticar con donne di cattiva fama, o dove fosse pericolo che havesse a commettere adulterio[2]. [...]
Per tornar dunque al proposito nostro, volendo la Donna conservar l’honore, bisogna che habbi
l’occhio a conservarsi l’honestà; e non solo a mancar
di colpa, ma ancho della sospicione
della colpa; il che si verrà fatto s’ella accompagnarà le parole, il riso, i sguardi, et i portamenti della persona con quella grave e reverenda maestà
che a casta et honesta
matrona familiare si conviene; e sopra tutto si guarderà dalla intrinseca conversatione di qualsivoglia contition
d’huomo, fuori che padre, figliolo, e fratello;
perché havendo l’honore il
suo fondamento e la sua propria essenza nella opinion del mondo, non tanto si
perde per il peccato, quanto per versimili inditij di peccato[3]. Certo,
i toni non sono gli stessi del
regno di Napoli, non fosse altro per quel che riguarda la punizione
dell’adulterio, fermo restando il diritto al ripudio della moglie. La vita ha una sua sacralità, e il
risarcimento dell’onore offeso per adulterio, pur non affrontato direttamente e
surrogato nella questione più generale della liceità del duello, non è affidato
alla vendetta privata: il ricorso al magistrato resta la sola strada per
chiedere giustizia, sia in nome della legge di natura e di quella divina che contemplano la vita e
non la morte, e sia in nome dell’appartenenza ad un Principe cui si è
sottoposti. E certamente siamo
lontani da quel costume diffuso di altri stati, che contempla ancora un altro terribile
dovere: i fratelli dell’adultera sono obbligati a partecipare al suo
assassinio. Costume che lo scavo magistrale storico-letterario (spesso equivocato) di Stendhal ha consegnato alle Cronache romane. L’uccisione della sorella ha una ulteriore funzione catartica se non lasciata al solo
marito: ripristina l’onore e lo status compromesso del casato di provenienza.
Nel caso di Maria, se pure complicità violenta fosse
mai potuta venire da casa d’Avalos (fratello e
padre), certamente le ragioni del sangue non avrebbero
potuto, almeno a freddo e a distanza, essere superiori a quelle dell’onore. Nel secolo di Carlo,
l’onore ha altresì un’altra variante: chi uccide chi, ossia l’appartenenza sociale di chi uccide e
dell’ucciso decide della legittimità dell’atto. E’ un
costume aristocratico che Pierre de Bourdeille, un nobile di provincia dell’ancien régime,
comincia a dissolvere inchiodandolo alle sue eclatanti
contraddizioni. E tanto più significativa è la sua
posizione, per essere egli interno alla mentalità che comincia a mostrare
crepe. Egli è un uomo di lettere e di spada, abate secolare, terzogenito del
visconte di Brantôme, che partecipa come protagonista
diretto, se pure secondario, a tutte le vicende delle lotte religiose e civili
in Francia della seconda metà del Cinquecento. Se l’omicidio fosse stato
compiuto direttamente da Carlo, i familiari dei due uccisi ne
avrebbero potuto e dovuto accettare la difesa dei valori di casta; ma,
poiché la violenza omicida è stata “quella di servi e schiavi che si sono
sporcate le mani di un così nobile e bel sangue” (Pierre
de Bourdeilles, noto più semplicemente come Brantôme ), essi avrebbero avuto buon diritto a
pareggiare i conti con il mandante che l’ha scatenata: è la tesi che circola
non solo nel regno di Napoli, ma anche oltralpe, come attesta l’eco della
discussione di cui si fa carico il nostro abate, quasi coevo (1540-1614) di
Carlo Gesualdo. Ma anche in questo caso quale valore
affermerebbe questo costume? E’ da considerare più importante la vita di una
persona amata o il modo con cui essa è privata?,
conclude il nostro, dileggiando giuristi e sapienti. E se fossero mutati gli
attori, sarebbe cambiato qualcosa?, incalza l’abbate: “Questa signora [Maria d’Avalos] era figlia di don Carlo, secondo figlio del
marchese di Pescara, al quale se qualcuno avesse fatto un simile scherzo per le
sue amicizie coniugali che io ben conosco, sarebbe già morto da molto tempo”[4]. E Brantôme ci è prezioso ancora per la prospettiva in cui l’episodio di
Maria è collocato nella sua produzione letteraria:
l’incanto e lo stupore espressi nel riconoscimento di un mondo femminile
aristocratico non subalterno a mariti, re o signori feudali che fossero. Brantôme si occupa sì di vite scandalose di dames galantes
(espressione impossibile anche da tradurre già nella cultura romantica
dell’Ottocento), ma si occupa anche di Vies de dames illustres del suo
secolo. Galantes e illustres
non sono d’altronde parole che gli appartengono, ma sono scelte dal suo editore
postumo per ragioni commerciali[5]: egli è interessato ad affrescare una galleria di
personaggi femminili che nel suo tempo giocano un ruolo decisivo, comprimario
se non superiore a quello degli uomini nei grandi eventi (Caterina dei Medici, Margherita di Valois,
Margherita di Navarra, la regina Anna di Bretagna, Maria Stuart). E’ ancora la sua
una visione da cortigiano, che è schiacciato da una
doppia morale o forse da una debole morale: “è lecito alle belle e grandi dame di prodigare le loro buone
grazie, per le quali l’incostanza sarà addirittura una virtù. Ma le dame medie,
nobili e borghesi, sono tenute ad essere costanti e ferme
nei loro affetti, come le stelle fisse e
del tutte immobili. Come dire? La trasgressione è assorbita dalla grandezza
del dovere da assolvere o dalla missione da compiere delle singole eroine.
L’approccio di Brantôme indica, nella cultura
rinascimentale avvolta dall’ancien règime, un’altra strada, certamente tortuosa
ma non secondaria, per affermare il valore della vita e del singolo, pur
all’interno dello stesso mondo gerarchizzato e
aristocratico. E’ una via diversa, lontana anni luce dal coevo giusnaturalismo di stampo anglosassone, che, espressione
culturale della borghesia nascente, sia nella variante hobbesiana
che lockiana, afferma la centralità della vita fra i
diritti naturali, inalienabili, universali dell’uomo (per entrambi i generi). Ma
non è meno interessante sul piano storico. Figlio del suo tempo, prigioniero di
una morale ambivalente, impossibilitata ad esercitare incontrastata una egemonia su un mondo in cambiamento, Brantôme
esprime il suo disagio per una morale maschile contraddittoria per i due
generi, e riconosce, sulle ragioni tradizionali del genere maschile e del
casato, l’autonomia femminile, sia pure circoscritta alle grandi dame. Loro sì possono vivere le loro affezioni, che diverranno poi, qualche secolo dopo, affetti e sentimenti riconosciuti almeno nelle affermazioni giuridiche del
diritto positivo e nelle testimonianze di vita di una
minoranza colta. Sono le prime crepe di un dominio
millenario, argomentate in modo del tutto diverse dalla celebrazione
cinquecentesca del furore divino
delle eroine d’amore, indistinte come singole persone. Ma siamo andati troppo oltre; lo scorcio di un’apertura non deve farci
perdere di vista la cultura dominante del tempo. “L’adulterio si giudica dalla
Curia ecclesiastica, quando non vi sia violenza” recita il 5° comma. Non è il
nostro caso: un padre gesuita molto noto ed una chiesa celebre si adoperano per
la pietas e una eccelsiastica sepoltura, all’indomani del duplice omicidio
d’Avalos-Carafa, ma solo perché chiamati e solo dopo
il ripristino dell’equilibrio operato dall’ira legittima del principe. “L’adulterio si punisce non più colla morte, ma colla confiscazione
de’ beni, se non vi sono figli”, recita il
7° comma, forse la sola nota moderata di una legislazione che resta
inalterata sino a fine Settecento nel regno di Napoli e altrove in Europa. Nel caso di Maria d’Avalos,
a fine ‘500, vi è il piccolo Emanuele, di pochi anni, dormiente nella
stanza attigua a quella materna, ancora a balia, che sarà per il padre, sette
anni dopo, ragione giuridica per
intentare un processo a Carlo d’Avalos, padre di Maria per la quota non corrisposta di dote, obbligo cui lo
stesso principe di Montesarchio, almeno sino a due
anni dalla morte di Maria. E
non di venalità si tratta qui, né di puro accanimento per rivendicare la
legittimità di un atto; ma di un istituto giuridico e culturale da preservare:
la continuità del casato attraverso il figlio. La liquidazione della dote,
unitamente alla purificazione del sangue attraverso altro sangue versato,
costituisce la via maestra per dare dignità senza macchia all’erede di due
casati illustri che non debbono estinguersi. “Ne’ delitti
di stupri e adulteri non si procede ex officio”, recita infine l’8° comma. La Gran Corte della Vicaria non deve
inquisire dunque, semplicemente perché non è tenuta a sapere quanto non le
compete: la tutela dalla trasgressione relativa alla prattica dei rapporti fra i sessi appartiene ai
maschi che hanno di fatto il mundio sulle loro donne. La Gran Corte della
Vicaria è tenuta tutt’al più a registrare nel nostro
caso, quasi fosse un atto notarile, l’adulterio
punito, e l’avvenuta morte di Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa,
trasgressori della legge. La sua azione si deve
limitare al solo accertamento dell’adulterio consumato e alla constatazione
della morte degli adulteri. Più tardi, a chiarire definitivamente la natura
privata dell’offesa e della eventuale querela, una
prammatica dell’imperatore d’Austria Carlo VI, del 1731 (data alla quale il viceregno di Napoli è passato di mano) stabilirà: “Per
togliere gli vari inconvenienti [che] nascono con disdoro delle famiglie
dall’abuso [che] si fa procedere ex officio ne’ delitti di stupri e di
adulteri, proibiamo a tutti gli officiali e subalterni delle Corti regie e
Baronali del Regno, di procedere ex officio, e senza querela della parte
offesa, ad atto alcuno ne’ delitti di stupri e adulteri, sotto pena di
privazione ed inabilitazione alli stessi, e ad altri
offici, oltre d’altra pena riservata a real
arbitrio”. Ma già il 17° comma, sulla scorta del precedente, aveva tentato di
eliminare ancora un possibile equivoco sui soggetti titolari di diritto nel
punire, denunciare o rilevare l’adulterio: “La querela di adulterio
compete al marito solo, e a niun altro benché stretto
congiunto”. [1] Ivi, p. 93. [2] Ivi. [3] Ivi. [4] Ivi. Il marchese del Vasto era stato conosciuto
direttamente dal giovane abbate, una prima volta nel
1559, quando era stato in viaggio in Italia ed era stato calorosamente ospitato
da sua moglie, Maria d’Aragona, ed una seconda volta
quando, nel 1565, si era fermato a Napoli in prosieguo
di avventure con altri cavalieri francesi per combattere i turchi che
assediavano l’isola di Malta, cfr. il
breve ma denso profilo biografico tracciato da L. Moland nell’introduzione a Vies des Dames illustres, Paris, edizione ottocentesca senza data. [5] “Era il momento della grande moda di queste
parole, illustres et galantes, e
l’éditore se ne servì per richiamare l’attenzione sulle sue pubblicazioni”,
scriverà due secoli dopo Louis Moland nell’introduzione a Vies des Dames illustres, cit., p.I. |