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In definitiva, nella prammatica napoletana, confluisce il peggior rigore
coercitivo del diritto romano, e il massimo di assenza
dello Stato. L’altro riferimento legislativo, contenuto nella stessa prammatica, è una costituzione del re Ruggiero II, il Normanno: “Si maritus uxorem in ipso actu adulterii deprehenderit, tam adulterum, quam uxorem uccidere licebit, nulla tamen mora protracta”. Carlo, che trova in flagranza di reato la moglie adultera, può (e deve)
uccidere l’adultera e il suo amante, e può farlo impunemente purché non passi
intervallo di tempo alcuno per la sua vendetta. Nel suo caso vi è certamente
premeditazione, che i testimoni non possono occultare, malgrado siano di parte
e manifestamente subornati; ma la legittimità della vendetta rispetto ad un
delitto consumato sotto i propri occhi, nella propria casa, nell’appartamento
sovrastante quello di Carlo, senza pudore, è prioritaria rispetto alla
considerazione della sua premeditazione. Che Carlo faccia testimoniare che ha
dato alcune pugnalate a sua moglie, quando sicuramente era già morta per ferite
inferte dai suoi sicari, serve al Viceré per disporre la sollecita
archiviazione, e al teatro sociale e culturale cittadino per accogliere un
copione di un attore protagonista dell’ultima scena, non essendo comparso se
non dietro le quinte nelle precedenti, già a tanti
note. Se poi la flagranza non dovesse bastare per
spingere in secondo piano la premeditazione, il grave oltraggio e il potere del
casato sono bastevoli per dare una mano alla legge. Se la distanza di quella mentalità è probabilmente abissale dalla nostra
sensibilità odierna, forse lo è meno se consideriamo che si protrae, con
qualche variante ed attenuazione, sino alla recente fine della civiltà
contadina, anche nella successiva modernizzazione industriale occidentale. E ancora: la prammatica dell’omicidio per
adulterio è parte della materia più generale che si occupa delle prattiche, così come sono chiamate sino agli
inizi dell’Ottocento le relazioni sessuali, che sono associate a delitti: lo
stupro, le meretrici e le donne che
calunniano o che accusano falsamente gli uomini di violenza per trarne privati
vantaggi. Come dire?
L’omicidio per adulterio, non considerato reato, è assimilato dal diritto
corrente alla punizione della devianza femminile e della violenza contro donne oneste. La prammatica raccoglie e si
sostanzia, dunque, allo stesso tempo, della legislazione passata millenaria e
di quella secolare del Regno delle Assise Normanne del
1140 e delle Costituzioni melfitane di Federico II
del 1230. Anzi, la fonte di legittimità della prammatica è per eccellenza
l’autorità della legislazione degli antichi. Se
innovazione c’è, quando c’è, essa non deve mai apparire come rottura radicale
con il passato. Tutt’al più può consistere nella
mitigazione della pena, come nel caso dell’adulterio, come accadrà solo a
Settecento inoltrato, quando l’influsso dell’Illuminismo giuridico avrà una sua
pallida eco anche nel campo delle infrazioni relative alle
relazioni fra i sessi. Chi volesse poi scambiare tale omicidio con il delitto d’onore e il delitto
passionale, per cogliere semmai come la legislazione del tempo
proteggesse in qualche modo un valore e un costume, dando un’attenuante a chi
osasse attentare alla vita, parimenti si
sbaglierebbe. Proietterebbe nel passato un alibi, un’attenuante proprio della
storia contemporanea, che null’altro è se non una difesa culturale che attinge
e si nutre della cultura dell’ancien regime. E’ vero esattamente il contrario:
è l’adultera che va uccisa, e per di più a totale discrezione e volontà del
marito, cui solamente spetta anche la registrazione di adulterio,
ad esclusione di ogni qualsiasi altro congiunto della donna che ha infranto la
regola di fedeltà coniugale. Il delitto d’onore o il delitto passionale appartengono
invece ad una cultura giuridica più
tarda, propria della rivoluzione industriale e politica, che, più che evoluta,
è semplicemente più subdola e raffinata. La cultura liberale e romantica della
società borghese prima statuisce il
principio di eguaglianza civile e giuridica,
il diritto alla vita inalienabile per tutti, la sovranità intera ed
unica dello stato nel comminare la pena, e poi costruisce un’attenuante
che nega di fatto i principi che afferma. Le espressioni delitto d’onore e delitto
passionale saranno allora espressioni di una mediazione culturale prima che
giuridica fra il potere statale e il potere familiare, che resta saldamente in
mano al maschio: costruzioni concettuali per tradurre nella sfera del diritto
la disuguaglianza e la grande distanza che permane fra
i sessi, nonostante la rivoluzione industriale o la conclamata rivoluzione democratico-borghese. “Il marito può ripudiare la moglie
adultera” recita il 4° comma. E’ una
delle strade che avrebbe potuto percorrere Carlo, ma
l’espressione che questi mette in bocca ad un suo servo, “Corna a casa
Gesualdo!” per un adulterio che si consuma nel suo palazzo di Napoli, in pieno
centro cittadino, sulla bocca di tutti, è il grido inappellabile di una
rivendicazione scontata di dignità, da reintegrare attraverso il duplice
omicidio. E dire che, nel secolo di Carlo Gesualdo, tale cultura è figlia di un
costume della Spagna feudale, che regnando incontrastata, direttamente o
indirettamente, in tutti gli stati italiani, detta i valori e i comportamenti sociali per il
mondo aristocratico, non è un’attenuante. Basti dare uno sguardo nella raffinata Ferrara del
duca Alfonso II d’este, che darà di lì a poco sua
cugina in moglie a Carlo Gesualdo, per cogliere come la cifra di lettura dell’adulterio
( e del rapporto uomo-donna) non sia granchè diversa.
Specchio ne sono i Discorsi[1] a fine ’500 del colto Annibale Romei, che ne
raccoglie gli umori più profondi. L’adulterio è collocato, nel trattato, nella
più generale argomentazione intorno all’onore[2], uno dei beni più preziosi da conservare e
accrescere per un vero gentiluomo. Non che Romei non tratti anche dell’uomo
adultero, ma la questione vera è la donna adultera e il disonore irreversibile
che arreca all’uomo. Il paradigma base è sempre quello del mondo classico: la
donna è inferiore all’uomo, per natura e per ragione, e come tale non ha i suoi
stessi diritti e virtù, o quando li ha, li può
possedere in diversa proporzione, di riflesso come la luna sta al sole. E’ il filosofo
per antonomasia, ossia Aristotele, che lo ha codificato una volta per
sempre. L’adulterio maschile non sta, dunque, sullo stesso piano di quello
femminile: L’huomo [...] in due modi commette
l’adulterio, l’uno quando sendo egli legato, rompe il
giuramento del matrimonio, usando con donna sciolta; e in questo ancora che sia
degno di qualche biasimo, non perde però l’onore; perché non ingiuria se non la
sua propria moglie. L’altro quando o maritato, o sciolto usa con donna
maritata: questo resta dishonorato, perché pecca estremamente contra la virtù della
temperanza e manca a giustizia; perché egli è un grandissimo ingiuriatore e destruttore dell’altrui honore;
il quale, come ho detto, è il più pretioso di tutti i
beni esterni, e però [perciò] è stata meritamente dalle leggi imposta maggior
pena all’adulterio, che al furto; perché l’adultero fa danno all’honore, il ladro alla roba, e se ben per mala consuetudine
gli huomini non si vergognano d’esser tenuti per
adulteri, non è per questo che non siano degni d’infamia”[3]. E’ quanto argomenta il cavalier Gualengo, uno dei personaggi del dialogo letterario della terza giornata. Come dire? Se Fabrizio Carafa avesse avuto rapporti con una donna non maritata, avrebbe potuto essere biasimato sì, ma non avrebbe perso
l’onore, che ha perso invece attraverso Maria
maritata, infangando così il proprio onore e quello del casato di Carlo
Gesualdo. E se una donna maritata, se una delle tante Marie
avesse avuto rapporti con un uomo sciolto
o un uomo accasato, si sarebbe potuto
dire la stessa cosa affermata per l’uomo? No: è la risposta
secca, indubitata, data all’interlocutore immaginario, conte di Scandiano;
tanto se essa fosse maritata, che se non lo fosse: La
Donna, sì come in molt’altre cose, così in ancho in questa è di peggiore conditione
dell’huomo, prima perché s’ella
è maritata, col suo proprio macchia l’honore del
marito; secondariamente, perchè send’ella
(come afferma il Filosofo) soggetta di ragione all’huomo,
essa fa maggiore ingiuria: con ciò sia che maggiore è l’ingiuria dell’inferiore
verso il suo maggiore, che non quella del superiore verso l’inferiore. Terza perch’ella può portar nella casa
del marito figlioli d’altri, levando la facoltà a’
propri figlioli del marito. Quarto, perché la Donna pecca estremamente
contra la sua propria principal
virtù, ch’è l’honestà. Non potrà dunque congiungersi
donna con altri che col marito, salvo l’honore suo; e
facendolo cade nell’infamia”[4]. E con l’affermazione della virtù per eccellenza della donna, l’honestà (ossia la
verginità se nubile, e l’esclusiva appartenenza al marito se sposata) siamo
alla definizione per eccellenza dell’identità femminile: l’ipostasi del corpo
e, di riflesso dei sentimenti, che appartengono all’uomo che ha la signoria
su di lei. Signoria che segue l’altra su di lei esercitata dal padre, dal
fratello, o che essa esercita come madre, entrambe nelle pareti domestiche. Se mai dovessero esservi dubbi, tali temi sono
sviluppati poi nella parte che riguarda “l’honor
della donna dove consista”, nell’“honor della donna
come si conservi”, ed infine se la donna colla sua infamia macchi l’honor del marito”[5]. A dialogare stavolta con il cavaliere
Gualengo è non casualmente una donna: la letterata,
poetessa, compositrice, suonatrice, danzatrice, regista Tarquinia Molza, una delle figure femminili più squisite che abbia
avuto il Rinascimento ferrarese e italiano. Se non vi
è posto per le donne per le virtù e i valori decantati per gli uomini (amor di
patria, gloria, coraggio, ecc.), a cosa può mai aspirare una donna? Tarquinia
può porre tutte le domande che vuole, scavare nelle contraddizioni del filosofo
Annibale Romei, offrire quello la sua vita stessa rappresenta, ma neanche la sua straordinarietà di intellettuale e la sua autonomia bastano: l’essenza della
virtù e dell’onore femminile non risiedono in altro se non nell’honestà: “Anchora che nelle donne, gentilissima Signora, tutte le
virtù si trovino, che proportionatamente alle virtù
degli huomini rispondono, nientedimeno pare che nel
conservarsi l’honore, elle siano
d’assai miglior conditione degli huomini;
perciochè l’honore Donnesco
si conserva col non mancar ad una lor propria
particolar virtù; e questa è l’Honestà.” Dunque
– replicò la signora Tarquinia, se una Donna facesse furto, homicidio,
o mancasse in qualch’altra parte a giustitia, ella non si farebbe per
tal atto infame?” Et il Gualengo: “Anchora che tali peccati negli huomini
e nelle donne, dalle leggi siano egualmente puniti, nondimeno ogni volta che
nella donna non siano accompagnati da atto dishonesto, non la rendono del tutto infame. Però non era
lecito agli Hebrei, né appresso i Romani repudiar la
moglie, si come ancho adesso non è lecito far la separatione del toro se non per la dishonestà:
con ciò sia che tal peccato sia così grave nella donna, che col suo macchia anco l’honor del marito”[6]. [1] A. Romei, Discorsi del conte Annibale Romei gentil’huomo
ferrarese divisi in sette giornate, Per Vittorio Baldini
stampatrore ducale, Ferrara 1586. [2] Cfr. ivi, Terza [giornata], Dell’onore,
“Se l’dultero sia infame”, e “Se la donna colla sua
infamia macchi l’honore del marito”, rispettivamente
pp. 71-72, 93-94. [3] Ivi, p. 71. [4] Ivi. [5] Ivi, pp.92-94. [6] Ivi, p. 92-93. |