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L’autorità politica e
giudiziaria, come solitamente usa procedere in simili circostanze, può e deve
preoccuparsi unicamente dell’ordine pubblico; né l’amore e la stima
personale del Viceré per il duca d’Andria possono
modificare consuetudini e leggi: la vendetta per “l’ingiuria ricevuta”,
ritenuta legittima e dovuta, potrebbe ingenerare a catena altra vendetta, non
legittima, ma non per questo anch’essa meno dovuta per ragioni di status.
Vendette, beninteso, non tanto da parte dei d’Avalos, che hanno oltraggiato l’onore del proprio e
dell’altrui casato senza remissione possibile, ma da parte dei Carafa, chiamati in causa dalle leggi del sangue, che
accampano ragioni speculari a quelle dell’onore. Le
contraddizioni dei testi, la chiusura rapida dell’istruttoria, la ovvia ed evidente premeditazione del duplice omicidio nel
palazzo di casa Gesualdo sono indiscutibili, come lo è il potere di casa
Gesualdo che annovera principi, cardinali, e parentele altrettanto potenti con
papi, e altri principi e cardinali d’Italia (Borromeo,
Colonna, Gonzaga, ecc.). Ma le contraddizioni e il
peso del potere sono comunque secondarie rispetto al
diritto consuetudinario e positivo dell’epoca, che attribuisce alloffeso il legittimo diritto e dovere di vendicare il
toro ricevuto. Gli
estensori della Gran Corte della Vicarìa non possono
e non debbono lasciare dubbi di sorta:
l’inequivocabile flagranza di reato dei due adulteri. Segue una messinscena –
complice Pietro Bardotto, fedele servitore di Carlo – per dimostrare la
familiarità della frequentazione di Fabrizio Carafa
in casa Gesualdo: un presunto doppione di chiave di cui quest’ultimo
sarebbe stato in possesso per entrare indisturbato in casa altrui. E’ il primo
degli evidenti sostegni dati dal potere vicereale a casa Gesualdo, ma del tutto
irrilevante ai fini della tesi, fondata, che si accampa: la lunghezza del tempo
di frequentazione e l’oltraggio ripetuto ai Gesualdo:
“Ammaza, ammaza questo
infame, et questa bagascia!
A casa Gesualdo corna!”, avrebbe detto Carlo, secondo
la deposizione di Pietro Marziale (alias Bardotto), guardarobiere di casa da 22
anni, chiamato a testimoniare. La restante informatione, continuata sei
giorni dopo, con l’interrogatorio dei testi, non sarà altro che il corollario
verbalizzato di questa tesi, la cosiddetta “pruova
specifica” (ossia l’individuzione inequivocabile
degli autori e del movente dell’accaduto), che segue alla “pruova
generica descrittiva”, ossia all’atto istruttorio di ricognizione degli uccisi
raccolto il 17 ottobre. Il
primo teste, Laura Albano, serva di camera di Maria
d’Avalos da sei anni (due anni prima del suo
matrimonio con Carlo), non dovrà che avvalorare la precedente “pruova
generica”: E similmente l’altro teste,
il guardarobiere Pietro Bardotto, la cui deposizione si configura come mosaico
di mezze verità più menzognere delle
bugie, volta a rafforzare il movente, salvacondotto del duplice omicidio. Troppe le incongruenze di orario,
di circostanze, il vedere e il non vedere, la presunta partecipazione di Carlo
all’omicidio di Maria, quando essa in realtà è già
morta, ecc.: l’informatione
ha un impianto inquisitorio debolissimo. Ma è questo
che doveva realmente interessare i posteri? Che Carlo Gesualdo non abbia mosso
un dito, e che tutto sia stato compiuto dai suoi servitori; che la serva di
camera di Maria d’Avalos,
Laura Scala, possa essere stata fatta allontanare o addirittura fisicamente
eliminata, e che su di lei non si avvii ricerca alcuna; che il duplice omicidio
sia stato a lungo premeditato, discusso da più
menti, suggerito e/o istigato da invidie, gelosie, persone respinte,
interessi personali o di gruppo: sono tutti elementi secondari rispetto alle
ragioni di vendetta riconosciuti per l’ingiuria
subita, e all’altrettanto riconosciuta assoluta
sovranità e determinazione nella tragica e consapevole (e consapevole perché
tragica) decisione. Poteva essere del resto la vendetta servita diversamente? Potremmo
immaginare noi Carlo Gesualdo, il melancolico principe perennemente debilitato da malattie,
mutare registro e passare con disinvoltura dalle note musicali alle armi, per
eseguire personalmente un assassinio a
cinque voci, per usare una metafora del romanziere contemporaneo Alberto
Consiglio? Non sarebbe egli stato travolto e forse ucciso dal forte, oltre che
bel cavaliere, Fabrizio Carafa, tanto uso alle armi? Avrebbe potuto lasciare
in vita o impunita la serva che da anni fungeva da
complice alla tresca? Se lo pensassimo, dovremmo postulare una cultura laica
diffusa del perdono, e per di più differenziata
secondo i gruppi sociali, inversamente proporzionale allo status di
appartenenza. Ossia, esattamente il contrario della cultura del tempo, fondamentalmente devozionale, propria della
Controriforma, che assegna il perdono alla sola divinità e lo relega
prevalentemente, se non solo, al destino dell’anima. Forse alcuni altri
elementi della informatione meritano essere sottolineati, gli stessi che,
più o meno invariati, compariranno, però senza commento alcuno, nelle postume
versioni: una ripetuta descrizione delle ferite, e il compiaciuto racconto
delle figure e degli atti della pietas
da parte dei familiari accorsi l’indomani mattina per conto degli uccisi. Tanto
la prima, solo apparentemente inutile o morbosamente indugiante ad alcune parti
intime del corpo dei due adulteri, quanto la seconda, rinviano, nel tempo
storico dato, alla sola elaborazione possibile del lutto: il corpo non può
essere fonte di piacere, non ha statuto autonomo se non nella relazione
legittimamente riconosciuta nel matrimonio-negotio. L’abbandono
peccaminoso ai desideri della carne è, di conseguenza, una trasgressione che
investe in modo dirompente gli equilibri dell’intero corpo sociale; se una
qualche dignità va al corpo riconosciuto, può esserlo nella sola sottrazione
alla decomposizione della materia, per portarlo nel grembo accogliente della
Chiesa: quando l’offesa e la vendetta sono consumate, ecco allora che la
drammatizzazione dà il passo a donne pie e sacerdoti (Maria
Gesualdo, zia di Carlo e di Maria, la duchessa di Traietto, e il padre gesuita Carlo Mastrillo),
intermediari dei congiunti (la preveggente Maria Carafa, contessa di Ruvo, il
priore d’Ungheria, rispettivamente madre e zio di Fabrizio; Sveva Gesualdo,
madre di Maria), tutte novelle nottole di Minerva al
crepuscolo di una catarsi-catastrofe annunciata e strumenti dell’elaborazione del lutto. Le prammatiche del tempo sono inequivocabili, il diritto è sempre l’espressione non solo dei rapporti contingenti di forza fra
i gruppi sociali e fra i sessi, ma anche del costume e della mentalità più
profonda: “Al marito è lecito di uccidere in atto d’adulterio la moglie e
l’uomo” (2° comma della prammatica LI, “Alla legge Giulia degli adulteri. E de’ stupri”[1], che contempla l’omicidio per adulterio nel regno di Napoli). L’adulterio è della sola donna, s’intende, essendo
inconcepibile nell’ancien régime quello del maschio. Un dato biografico della
vita del principe madrigalista può chiarire ancora meglio la differenza di
status e di potere dell’uomo rispetto alla donna: un legato del suo testamento
affida a Leonora d’Este, sua seconda moglie, e a sua zia materna, esecutrici
testamentarie, il compito di provvedere ad un assegnamento annuo ad un suo
figlio naturale (Antonio, di Venosa). Avrebbero potuto mai Leonora o la
duchessa di Gravina affidare a Carlo l’esecuzione di un legato di un loro
figlio naturale ed illegittimo, pur
morto il loro marito? Chi si aspettasse di trovare nella legislazione dell’ancien règime
l’omicidio per adulterio fra i delitti, sbaglierebbe secolo: l’omicidio per
adulterio non è un delitto, ma un diritto del quale può avvalersi
l’offeso. Di più: un diritto da agire non separatamente, ma
congiuntamente contro la moglie adultera e l’uomo interessato: “Ma se [il
marito offeso] dimetterà l’adultero e riterrà la moglie, sarà tenuto di
lenocinio”, recita il 3° comma della
prammatica. La prammatica che contempla la soppressione della vita di
due singoli individui, in realtà concerne una relazione delittuosa che
sconvolge l’ordine sociale. L’omicidio
per adulterio è rubricato dal diritto positivo vigente
a fatto privato, anzi, meglio: una pena di morte comminata dall’offeso al di
fuori della potestà dello Stato, con la licenza di uccidere che la legge
concede anticipatamente, simile a quella di caccia o all’obbligo di eliminare
il nemico in tempo di guerra. Il riferimento alla legge Julia, del diritto romano, non è casuale o residuale:
l’omicidio è l’esercizio di una potestà illimitata dell’antico pater familias
romano, alla soglia della cui casa profanata lo Stato si arresta. Anzi, meglio: la prammatica del regno di Napoli, della legge Julia propriamente detta, varata durante l’età augustea (probabilmente il 18 a.
c. circa) accoglie più il nome che la sostanza
normativa, poiché del diritto romano recepisce le istituzioni proprie dell’Età
repubblicana e del Basso Impero, che precedono e seguono rispettivamente l’Età
imperiale. Il solo elemento comune (che poi resterà sostanzialmente immutato
nel costume, sino alle soglie dell’età contemporanea, almeno in Occidente), quale
che sia il regime statuale, è che l’infedeltà si
riferisca alla sola donna sposata (nupta). La lex Julia de adulteriis coercendis, pur
nello spirito di una morale coercitiva[2], infatti lascia
fondamentalmente allo Stato l’intervento diretto alla salvaguardia del buon
costume: l’adulterio, crimen publicum, è
materia di cui cui si occupa un pretore (praetor),
pubblico ufficiale, e l’accusa, sulla scorta dei processi che si svolgono
davanti alle questiones perpetuae, è
virtualmente aperta a qualsiasi cittadino. E pur
contemplando la flagranza di reato, dà poteri diversi e limitati all’esercizio
di diritti ritenuti legittimi dal pater familias e dal marito: il pater familias può uccidere entrambi gli
adulteri, il marito può, solo in certi casi però, uccidere l’adultero e
chiedere il divorzio. Ad ulteriore affermazione del
carattere pubblico del reato di adulterio, la lex Julia obbliga il marito a divorziare, se non vuole essere
accusato di crimen lenocinii e
complicità o favoreggiamento dell’adultero. Quanto alla pena, la lex Julia non
contempla la pena di morte, ma la relegazione per l’adultera e il suo complice,
e sanzioni patrimoniali (la confisca di metà della dote e di un terzo dei beni
parafernali dell’adultera, e la confisca di metà del
patrimonio dell’adultero). Diversamente la precedente Età repubblicana: la punizione dell’infedeltà
non è materia che attiene al diritto pubblico; essa è regolata da norme morali
e di costume sanzionate nell’ambito della famiglia. E’ il titolare della
potestà (manus)
sulla donna, il marito o il pater familias, che può esercitare il diritto della vendetta
privata o convocare il tribunale domestico (iudicium domesticum). Se
di sconfinamento nel diritto pubblico si può parlare, è per la sola questione
patrimoniale: in caso di scioglimento del matrimonio, non vi è restituzione
della dote conferita dalla donna. Con il Basso Impero si hanno ulteriori aggravanti,
sia rispetto all’Età repubblicana che a quella Augustea,
destinate a restare nel Corpus iuris: la pena di morte (potestats gladii) per entrambi gli adulteri e il
diritto di accusa riservato solo al marito dell’adultera. [1] A. Sauri, Codice delle leggi del regno di Napoli di
Alessio di Sariis, presso Vincenzo Orsini, Napoli 1796, libro XII, titolo
LI, nn. 1-8. [2] La lex Julia colpisce infatti non
solo l’adulterio femminile, ma anche qualsiasi relazione sessuale con donne
nubili o vedove di elevata condizione sociale, assimilandola allo stuprum. Di qui l’associazione adulterio-stupro, che poi resterà nella
prammatica napoletana (ed in tante altre legislazioni occidentali). |