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Gesualdo omicida: diritto o delitto?

 

Annibale Cogliano 

Centro Studi e Documentazioni Carlo Gesualdo

(Tratto da: Carlo Gesualdo omicida fra storia e mito. Napoli: ESI, 2006. ISBN 88-495-1232-5)

 

“Messeri, vi garba ascoltare una bella storia d’amore e di morte? …”, è l’incipit del Tristano di J. Bédier, che Denis de Rougemont, in L’amore e l’Occidente[1], ripropone al lettore come filo rosso del mito progressivamente degradato dell’amore e del rapporto uomo-donna, proprio della cultura occidentale, nella realtà e nella letteratura, dal XII secolo ai nostri giorni. Le vicende umane e artistiche di Carlo Gesualdo (1566-1613), principe del tardo Rinascimento del regno di Napoli, trasfigurate da narratori, drammaturghi, cineasti, letterati e musicologi sembrano rientrare tutte in questo mito.

L’attenzione[2] musicale e letteraria, e in qualche modo quella, più povera, storiografica su Carlo Gesualdo, salvo quando è calato il sipario sulla sua produzione artistica e, non meno sulla sua vita, fra il700 e la prima metà dell’’800, è sempre stata attraversata da un evento che ha finito per identificare il principe dei musici: il duplice omicidio (ottobre 1590), da lui commissionato e a cui ha presenziato, della moglie e dell’uomo adulteri, Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa. Identificazione che ha finito per far slittare su un momento tragico della sua vita tutta la sua esistenza e tutta la sua arte: Carlo Gesualdo grande principe madrigalista-uxoricida è il musico-assassino. Di più: la letteratura napoletana del Seicento, in particolare quella minore degli ultimi decenni che va sotto il nome dei fratelli Corona (pseudonimo di anonimi dall’identità solo parzialmente individuata), quando si è adoperata prepotentemente alla costruzione del mito, salvo decantare la straordinaria bellezza di Maria e di Fabrizio, e cantare un amore del bello, ha creato le premesse di un immediato degrado del mito attraverso l’irruzione devastante di un moralismo religioso, intrecciato ad un voyeurismo insolente, che ha presto assimilato l’amore alla libidine, la donna a una novella Eva tentatrice, la morte inferta ad una punizione divina, la mano assassina ad un peccatore errante fra la dannazione eterna e l’arte salvifica.

Coloro che nei secoli successivi hanno ripreso il mito, non hanno potuto far altro che accelerare in forma impoverita il degrado, ammantando di macabro ai limiti della perversione il duplice omicidio: congiunti di Carlo (talvolta lo zio Giulio, tal altra lo zio, cardinale Alfonso) o servitori (il segretario di Carlo, gobbo e deforme, alias lo prevetariello) che, respinti dalla seducente Maria, avrebbero istigato Carlo al delitto; sacerdoti che si sarebbero abbandonati ai loro più bassi istinti e che avrebbero addirittura abusato del cadavere ancora caldo della d’Avalos[3] (il gesuita, padre Carlo Mastrillo); Carlo Gesualdo che avrebbe ucciso in un secondo momento un secondo figlioletto, ritenenuto a torto non suo, facendolo morire d’asfissia su un’altalena nel cortile del castello di Gesualdo; gli esecutori dell’omicidio che, per ordine o per diretta mano di Carlo in preda al rimorso, nello spazio di due anni sarebbero stati a loro volta crudelmente assassinati; domenicani e gesuiti, mentori ed istigatori occulti mossi da cupidigia di danaro e di potere; sullo sfondo, Maria stessa, novella amantide, per la sua stessa avvenenza novella Circe e dea di morte, che, prima avrebbe fatto morire uno dei suoi due precedenti mariti avvinghiandolo nella sua lussuria, e poi sarebbe stata causa della ultima tragedia fatale per il suo insaziabile desiderio, irrefrenabile anche di fronte al più elementare istinto di sopravvivenza, quando la sua tresca era a tutti nota.

Tanta letteratura, cresciuta spesso su se stessa in modo autoreferenziale, ha finito, da un lato, per soffocare il più elementare rigore filologico, e le più obbligate domande storiche sull’uomo che attraversa con la sua vita ed esperienza musicale il regno di Napoli e gli altri stati regionali italiani, nell’ultimo quarto del Cinquecento e nei primi anni del Seicento. Dall’altro, ha finito per costruire un mito appena scalfibile, fra tribunali impietosi o indulgenti, in cui sola a salvarsi in qualche modo dallo scempio è la musica, profana (Madrigali, composizioni strumentali minori) e sacra (Sacrae cantiones, Responsoria, madrigali spirituali), perché affascinante, imperitura e immota nella partitura (altra grande innovazione di Carlo). Musica, però, a ben guardare, essa stessa trasfigurata dal mito: soggetta al suo peccato originale della morte violenta inferta, avrebbe generato nel principe assassino arte tanto sublime ed innovativa, quanto tenebrosa ed inquietante, linfa vitale ed espressiva di un animo tormentato dal rimorso e alla ricerca spasmodica di una incerta, se non impossibile espiazione.

 

Punto di partenza obbligato è la ricostruzione del duplice omicidio. Di prima mano sono le scarne e lapidarie note di un osservatore esterno coevo, l’ambasciatore veneto a Napoli. Oltre a questa fonte primaria, a fronte della miriade di copie dell’informatione originale, andata perduta[4], della Gran Corte della Vicarìa, il tribunale napoletano di ultima istanza per materia criminale e civile, che sono state il materiale da supporto per la leggenda e la letteratura successive, due a noi ci paiono le informationi in copia più attendibili. L’una, del tutto ignorata sinora, conservata nella Biblioteca Provinciale di Avellino, è tratta dall’Archivio della Casa Teora[5], in data imprecisata, ma (dalla calligrafia) probabilmente della seconda metà del Settecento: il lessico, l’ortografia, la punteggiatura, nonché alcune parole proprie della seconda metà del Cinquecento danno a questa informatione un carattere di fedeltà all’originale che non hanno le altre, numerose, conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli. L’altra informatione, meno ignorata, conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli, redatta nel 1682 in modo del tutto indipendente da tal Onofrio Santavita[6], è una conferma indiretta della fedeltà all’originale della precedente, presentando varianti solo ortografiche proprie del tempo della trascrizione, limitandosi il copista, quasi un secolo dopo, a modernizzare una et con una e, un dopoi con un dopo, abascio con un abbasso, ecc.

Va immediatamente detto che la veridicità documentaria di entrambe non significa attendibilità nella ricostruzione dei fatti, né tantomeno semplicemente scavo istruttorio di un qualche rilievo. Ai ministri della Gran Corte della Vicarìa, in forza delle prammatiche vigenti e per probabile disposizione del Vicerè interessato alla salvaguardia dell’ordine pubblico, compromesso dalla morte e dallo scandalo che riguarda tre fra le prime dieci famiglie blasonate del Regno, interessa semplicemente procedere alla ricognizione della morte e del movente, ossia chiudere subito il caso riconoscendo la legittimità della vendetta per adulterio, ritenuta, nella mentalità del tempo, un fatto tanto dovuto quanto del tutto privato. Ritenere, come ha fatto la letteratura postuma (e in modo ancora più decontestualizzato quella giuridica) che la informatione dovesse ricostruire antefatti, retroscena, premeditazione, falsità o parzialità delle testimonianze, complicità plurime è semplicemente una proiezione antistorica del presente. La informatione della Vicarìa è, in definitiva, volutamente superficiale e monca come atto istruttorio, più un atto notarile, che avvio di un processo da parte dell’autorità vicereale, paga di una presa d’atto dell’evidenza palmare dell’adulterio consumato nel palazzo di casa Gesualdo e della conseguente risposta difensiva dell’offeso.

Che poi la parzialità del documento abbia alimentato fantasie o abbia sollecitato approfondimenti postumi, predisponendo ipso facto il canovaccio delle informationi di fine ‘600, sotto il nome dei fratelli Corona e di quelle ancora più romanzate dei secoli successivi, che attingeranno a ritroso nel “si dice” o in fatti reali, è altra cosa, che merita l’attenzione dello storico non meno della realtà trasfigurata ad esse sottostante.

Di coevo e in orginale, duqnue, ci resta solo la lapidarietà ed essenzialità della comunicazione dell’ambasciatore veneto al senato, del 19 ottobre del 1590, a due giorni del duplice omicidio:

 

Don Carlo Gesualdo, figliolo del prencipe di Venosa, et nipote dello illustrissimo cardinale [Alfonso Gesualdo, decano del collegio cardinalizio], appostatamente salito martedì alle sei ore di notte[7] con sicura compagnia alla stanza di donna Maria d’Avalos, moglie et cugina sua carnale, stimata la più bella signora di Napoli, ammazzò prima il signor Fabricio Caraffa [sic], duca d’Andria, che era con essa, et lei appresso, di questa maniera vendicando l’ingiuria ricevuta. Abbracciano queste tre principalissime famiglie quasi tutte le altre maggiori case del regno, et ognuno pare stordito per lo stupore di questo caso, et se ne sbigottì di molto all’avviso l’Illustrissimo signor Viceré che amava et stimava infinitamente il Duca come persona, che per natura et per studio era dotato di tutte le altre più belle et degne parti, et condizioni che si relevano in signor principale, et in valoroso cavaliere. Questi ministri con la corte sono stati alla casa, et fatte alcune inquisitioni, comandarono che fossero fermati, et custoditi nelle proprie case li famigliari di tutti gl’interessati sopra detti; ma fin qui non si sente altro[8].

 



[1] Cfr. Denis de Rougemont, L’amour e l’Occident, 1° ed. 1939 e 2a ed. riveduta del 1956, tradotta in italiano da Luigi Santucci, L’amore e l’occidente, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, 2° ed. 2001, da cui citeremo.

[2] Solo per restare ai più noti narratori, drammaturghi, cineasti, letterati e musicologi, da quelli del Seicento (Torquato Tasso, Ascanio Pignatello, duca di Bisaccia, Giulio Cesare Capaccio, Giovan Battista Marino, i fratelli Silvio e Ascanio Corona, fra Antonio Masucci), a quelli più tardi dell’Ottocento (Carmine Modestino, Anatole France) o a quelli ultimi del Novecento (Cecil Gray, Philip Heseltine, Francesco Vatielli, Alberto Consiglio, Herzog, A. Scnitke, Antony New Comb, Antonio Vaccaro, Michel Breitman, Gustav Herling, Giovanni Iudica).

[3] Nel corso dell’esposizione, tranne quando si sarà di fronte ad atti notarili, trascriveremo il cognome d’Avolos, di origine spagnola, in d’Avalos, come è incorso nell’uso italianizzato.

[4] L’originale è andato perduto, unitamente a tanta documentazione dell’Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASNA), per fuoco appiccato dai tedeschi durante la loro ritirata nella seconda guerra mondiale, ad un deposito periferico del Grande Archivio di Napoli.

[5] Processo per l’omicidio di don Carlo Gesualdo fatto alla sua moglie donna Maria d’Avalos e duca d’Andria à 17 ottobre 1590”, [estratto in copia] da Archivio della Casa di Teora, scansia 71, Platea II, n. 15, in Biblioteca Provinciale di Avellino, fondo Capone, b. 10, fascicolo 2, foll. 1-10r, in copia presso il Centro studi e documentazione Carlo Gesualdo, Biblioteca Provinciale di Avellino, b. 23/6. Cfr. infra per la sua versione integrale.

[6] Informazione della morte di Don Fabrizio Carafa Duca d’Andria e di Donna Maria d’Avalos Principessa di Venosa, copia presso la Gran Corte della Vicaria, di Onofrio Santavita, del 26 luglio 1682, in Biblioteca Nazionale Napoli, ms. XXII. 157, Storia segreta napoletana.

[7] Si ricorda al lettore il diverso computo delle ore nell’ancien règime: pur restando invariate nel numero di 24, la prima ora comincia circa mezz’ora dopo il tramonto del sole. Il tempo delle attività diurne, scandito dal ritmo solare, è anticipato rispetto alle consuetudini odierne.

[8] Cfr. Storia arcana ed aneddotica d’Italia raccontata dai veneti ambasciatori, annotata ed edita da Fabio Mutinelli, direttore dell’I. R. Archivio Generale in Venezia, vol. II, Tip. Di Pietro Naratovich, Venezia 1856, p. 162.


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