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Gesualdo e il Principe dei Musici DVD


Opera realizzata dal
Centro Studi e Documentazione Carlo Gesualdo
Piazza Umbero I
83040 Gesualdo (AV)
Tel.: 0825401425
e-mail: info@studicarlogesualdo.org


Dati tecnici:
DVD-video
Durata 38' - Lingua Italiano
Formato Video 4/3
Costo 12 euro



Indice dell'opera

  1. Dalla rocca al castrum

  2. Autonomia politica dell’Università

  3. Le Fiere  fra ’500 e ’800

  4. Ordine pubblico e magistrature fieristiche

  5. Struttrure recettizie e accoglienza dei forestieri

  6. Il Cappellone  fra ’500 e ’800

  7. Funzioni sociali della Cappella

  8. Amministratori e bilancio della Cappella

  9. Architettura civile e religiosa

  10. Carlo Gesualdo, Principe dei Musici

  11. Matrimonio con Leonora d’Este e pubblicazione dei primi quattro libri di Madrigali

  12. Sacrae cantiones e Responsoria

  13. Morte ed eredità musicale di Carlo Gesualdo

     

Regia e Testi
Annibale Cogliano

Voce recitante
Emanuela Mercurio

Disegni
Daniele Nitti
Giovanni Zarrella


Fotografia
Giovanni Zarrella (cui va un particolare ringraziamento)
Franco Caracciolo
Till Ansgar Baumhauer
Antonio De Gregorio
Antonio Bianco
Vincenzo Marruzzo
Mario La Torre


Doppiaggio
Rospo-Record Alessandro Altieri (Calitri)

Montaggio Video
Alfonsina Casarella

Layout grafico e supporto informatico
Alessandro Garofalo



Dalla rocca al castrum

Gesualdo si origina intorno alla rocca edificata nel processo di incastellamento del territorio operato dai Longobardi

Gisu-Wald, Jesualdo, indica con probabilità il bosco di Gisu, nome dell’antico possessore longobardo. I toponimi provano con certezza l’origine longobarda: Cittadella, luogo più fortificato intorno alla rocca; Biffa, segnale di avvistamento, limite invalicabile; Sala, luogo di raccolta dei tributi in natura dovuti al Signore; Capo di Gaudio, estremità del bosco e confine alto del casale Volpito.

Dopo la divisione del Ducato di Benevento fra i principi Radelchi e Siconolfo, da cui hanno origine i Principati di Benevento e Salerno, comincia-  probabilmente nella seconda metà dell’XI secolo-.  l’edificazione della rocca. In posizione dominante la valle del fiume Fredane, essa si erge a difesa di Frigento, sede vescovile, e dei confini orientali di Quintodecimo (oggi Mirabella), gastaldato del Principato di Benevento. Sino al 1063 è denominata Castel S. Angelo, toponimo con cui i Longobardi cristianizzati sostituiscono il loro antico dio guerriero Wotan

Con i Normanni, gli Svevi, e soprattutto in epoca angioina, la rocca si amplia in poderoso castrum. La pianta pentagonale, le alte torri cilindriche, i due rivellini di sbarramento, gli archi acuti, il cortile interno e la vera del pozzo, che oggi possiamo ammirare, ne sono la maggiore testimonianza.

L’importanza militare del castrum, la crescita demografica ed urbanistica della Terra portano, già sotto i Normanni, al mutamento di nome: da Baronia di Frigento a Baronia di Gesualdo.  

Dalla terra di Gesualdo prende il nome, agli inizi del XII secolo, il suo primo signore normanno, Guglielmo d’Altavilla.

Guglielmo è figlio naturale del duca di Puglia Ruggiero Borsa, figlio di Roberto il Guiscardo, fondatore del Regno normanno di Sicilia.

Il matrimonio con Alberada, figlia di Goffredo, signore di Lecce, porta a Guglielmo la signoria del castrum di Gesualdo e di altri feudi e castra del territorio irpino.

Elia, figlio di Guglielmo, per le sue ascendenze, è il barone più potente dell’intero territorio irpino: nella seconda metà del XII secolo, fra feudi diretti e suffeudi, più di 25 terre sono sotto il suo dominio, per cui è tenuto a dare al Re 240 cavalieri e 443 ausiliari. E’ Conestabile e Giustiziere, ossia capo militare e giudiziario dell’intero distretto irpino.

Dal secolo XII e sino alla fine del ‘400, le sorti del centro abitato sono legate a quelle del castello-fortezza, in mano a Baroni di volta in volta fedeli o felloni nelle lotte fra Svevi, Angioini e Aragonesi per il possesso del Regno di Napoli.

Nella seconda metà del ’400, durante il Regno aragonese, il castello è sottoposto all’ultima corvée. Una prima volta, durante la Congiura dei baroni che spalleggiano gli Angioini per la riconquista del regno: la rocca di Gesualdo, di cui è signore il conte Giacomo Caracciolo, nell’ottobre del 1461, è assediata dall’esercito aragonese. “Dicta rocca ha una forte torre, alla quale fin dal principio che se venne quà fu messo le bombarde, la quale in quest’hora è cascata de fora che, o per accordo o per forza, dicta fortezza se haverà, nè senza haverla intende la maiestà del re partire de quà”, scrive l’agente milanese a Francesco Sforza. Dopo la resa, per rappresaglia, gli abitanti di Gesualdo, che pur hanno aiutato il re aragonese, sono sottoposti ad un mortale sacco dai saccomanni sforzeschi. Una seconda volta a fine ‘400: Luigi Gesualdo, il nuovo signore, pur beneficiato della libertà da Ferdinando D’aragona dopo un primo arresto, passa dalla parte dei Francesi. Questi, accampati al Piano di S. Filippo, fra Frigento e Gesualdo, sono sbaragliati dagli Spagnoli. Ancora una volta la terra di Gesualdo e i suoi uomini pagano  le scelte dei loro signori.

Con il passaggio dell’ex regno di Napoli a provincia della potente Spagna nel 1504, i baroni e i castelli perdono definitivamente la loro importanza politico-militare.

 

 

Autonomia politica dell’Università

Nel basso Medioevo guerre, pestilenze e terremoti riducono la popolazione e le risorse. Il castrum offre protezione, e necessita al tempo stesso di un afflusso continuo di uomini e famiglie da altre terre.

I poteri del feudatario e il prelievo fiscale sulla terra debbono pertanto essere non gravosi. Alla fine del ‘500, con la signoria di Fabrizio Gesualdo, padre di Carlo, i diritti feudali sono ridotti al solo obbligo della molitura nei molini baronali di Paterno e Luogosano, e alla giurisdizione civile e criminale. Poche sono le terre baronali, censuate per modesti canoni, e poche le terre private possedute dal Principe: le Pastene, per meno di 14 ettari.

La comunità cittadina ha potuto espandersi dunque economicamente e socialmente attraverso un braccio di ferro continuo con il Signore.

Starse numerosissime di Greco e Aglianico, oliveti, colture ortalizie, seminatori arborati, terreni pascolatori, acque abbondanti e clima favorevole, cave di pietra e carcare, una proprietà media diffusa fanno di Gesualdo un giardino produttivo di prim’ordine. Sorga, Torretiello, Laudisio, Danusci, Mattioli, Volpe: sono le famiglie gentilizie a difesa della comunità contro le pretese dei signori feudali. Le stesse famiglie che, sino alla loro estinzione, fra Sette e Ottocento, fronteggeranno le famiglie gentilizie dei Pisapia e Catone, veri e propri serbatoi di agenti feudali.

 L’autonomia politica e amministrativa dell’Università, come allora si chiamava il comune, si rafforza ulteriormente nel ’500, il suo secolo d’oro. Le fiere e la Cappella del Corpo di Cristo sono i due istituti che fanno di Gesualdo una delle più fiorenti cittadine della provincia di Principato Ultra sino a metà ‘800.

 

Le Fiere  fra ’500 e ’800

Le fiere dell’Annunziata, della Maddalena, dell’Assunta, di S. Croce, di S. Luca, distribuite fra marzo e ottobre, rendono la cittadina un centro commerciale di prim’ordine, snodo per le fiere più grandi di Salerno, Benevento, Foggia.

Le fiere non sono semplici mercati dove si vendono merci ai consumatori. Sono luoghi di scambio fra mercanti provenienti da regioni lontane: cereali, bestiame, tessuti, metalli preziosi, utensili da  lavoro, lane, cuoi e pelli lavorate, vino, ed altre merci si presentano, si acquistano e si pagano solitamente nella fiera successiva. Un territorio collinare di oltre 45 ettari accoglie mercanti, animali, visitatori. L’esteso bosco di Migliano di Frigento, come da tradizione antichissima, offre gratuitamente erba ed acqua agli animali in transito.

Ordine pubblico e magistrature fieristiche

L’ordine pubblico è assicurato negli itinerari e strade d’accesso  da milizie provinciali, da armigeri, dal controllo dei passi e delle strade, da salvacondotti, ecc.

Un grande recinto rettangolare funge da unico fondaco protetto: oltre 3400 metri quadrati, con circa 140 baracche-punti vendita al suo interno.

Le merci comprate e acquistate hanno particolari franchigie, ossia esenzioni totali o parziali di dazi e gabelle.

Notai autorizzati dal tribunale della Provincia, l’Udienza di Montefusco, accertano le lettere di cambio nei giorni che precedono la fiera e ne roborano gli atti durante lo svolgimento.

Un mastro di fiera nominato dai locali amministratori esercita la giustizia civile e criminale durante il suo svolgimento, cura l’ordine pubblico con milizie provinciali o con i cosiddetti mazzieri, uomini che per l’occasione svolgono funzioni paramilitari. Il mastro di fiera controlla i prezzi, la qualità del foraggio e degli alimenti somministrati nelle taverne e annota in un registro coloro che sono ospitati dai privati.

Un’epigrafe del 1578 sul portone principale d’ingresso del recinto fieristico ricorda la battaglia vinta dall’Università contro le pretese del principe Fabrizio Gesualdo a mettervi le mani.

 

Struttrure recettizie e accoglienza dei forestieri

Pagliai-trattorie danno cibo e ristoro agli avventori. Case private e numerose taverne urbane e rurali accolgono mercanti, garzoni, merci,  e offrono stallaggio agli animali. Insieme ai mercanti giungono artigiani, prestatori di danaro, artisti, ciarlatani, giocolieri, manovali, scapoli in cerca di moglie e gente in cerca di fortuna. 

Gesualdo è cittadina aperta, i forestieri sono benvenuti: i cognomi locali sono i cognomi di quasi tutte le regioni meridionali e delle città più mercantili e produttive del Regno, nonché di ebrei espulsi dalla Sicilia e dalla Spagna a fine ‘400; i toponomi Toppolo dei Greci, Fontana degli Schiavoni, Torre dello Schiavo ancora oggi ricordano l’insediamento di greci, albanesi, slavi.

 

Il Cappellone fra ‘500 e 800

L’altro grande istituto di sviluppo è la Cappella del SS. Corpo di Cristo ospitata nella Chiesa madre di S. Nicola. I  suoi statuti datano a fine ‘500, ma la sua attività è antecedente. Il suo monumento simbolo, costruito nella seconda metà del ‘600, simile più al tempio di Salomone che all’architettura cristiana, è il Cappellone, orgoglio e tratto distintivo della comunità cittadina.

Funzioni sociali della Cappella

 Sotto le vesti di opera pia assistenziale, la Cappella del Corpo di Cristo opera come un potente strumento di sviluppo sociale ed economico. Terre, orti, vigne, case, frantoi oleari, greggi, danaro sono il suo patrimonio in continua crescita per donazioni e legati testamentari. Le sue terre, fra cui quelle dell’Otica e di Capo di Gaudio, strappate al principe Fabrizio Gesualdo, sono pari a circa un terzo della superficie comunale. I beni di vario tipo sono conferiti in affitto temporaneo o perpetuo a tutte le famiglie che ne fanno richiesta in cambio di un modesto canone annuo in danaro o in natura. Quando la famiglia assegnataria si estingue, i beni tornano alla Cappella.

Amministratori e bilancio della Cappella

 

Le sue entrate pareggiano quasi quelle dell’Università, e sono quasi uguali  a quelle del locale feudatario. Di più: ogni anno, l’introito non è capitalizzato  ma speso in messe, feste, restauri di chiese, fontane, taverne, riparazioni di case, servizi sanitari e beni di consumo vari. I suoi mastri sono eletti annualmente a rotazione, e sono tenuti a dare il rendiconto a tutta l’assemblea dei cittadini riuniti in parlamento davanti il Cappellone, presso cui è anche la Casa della Terra (l’allora municipio).

Gesualdo, almeno sino agli inizi dell’800, grazie alla Cappella del Corpo di Cristo, è una grande palestra di democrazia e un cantiere di lavoro aperto permanente, che impedisce l’accumulo delle ricchezze nelle mani di pochi.

 

Architettura civile e religiosa

La struttura urbanistica originaria è quella del Basso Medioevo, che conserva ancora oggi la sua impronta: il Castello dominante sulla collina, le case disposte a ventaglio lungo i tornanti; l’antico borgo della Biffa e della Cittadella; la Chiesa cattedrale del XII secolo, con patrono S. Nicola, il santo difensore dalle invasioni nemiche; il monastero dei Celestini (1335) e l’annessa chiesa dell'Annunziata; più porte d’ingresso: Porta delle Colonne, Porta Nuova; stretti vicoli, corti interne, archivolta, loggiati polifori, portali, finestre.

Alla struttura originaria si aggiunge in età moderna l’architettura civile e religiosa, con committenza dei feudatari locali, dell'Università, e di privati. Il '600 è il il secolo d’oro dell'esplosione artistica.

Il castello, con il matrimonio di Carlo Gesualdo e Maria d’Avalos  prima (1586) con il trasferimento della Corte e del cenacolo musicale poi (fine ’500), si trasforma in dimora signorile di stile rinascimentale: cortile e loggia della torre meridionale, nuovi appartamenti e cucine attrezzate ad ospitare una Corte, stanze e gallerie con pitture manieriste, fiamminghe e il Salvatore del Caravaggio, la sala del Teatro, giardini e fontane che si perdono nel verde e nell’azzurro dell’orizzonte.

 Con il ritorno di Carlo Gesualdo da Napoli,  comincia l’edificazione del Convento dei Cappuccini con l’annessa chiesa di S. Maria delle Grazie (1592). Questa chiesa ospiterà il quadro devozionale di Giovanni Balducci (1609), detto tradizionalmente la Pala del Perdono: Carlo Borromeo presenta alla Divina Maestà suo nipote Carlo Gesualdo. Questa chiesa accoglierà i resti mortali di Carlo e del figlio Emanuele, morti nel 1613.  Sotto la signoria di Carlo, maestranze di Cava dei Tirreni costruiscono l’acquedotto a servizio delle fiere, del castello, di case signorili dei suoi agenti e della piazza. Più tardi, il principe Nicolò Ludovisi amplierà il convento dei Cappuccini con costruzioni e giardino; farà edificare la chiesa di S. Maria della Pietà (1642), che un secolo dopo ospiterà la Collegiata parrocchiale di S. Antonino. Sotto la signoria del Principe Nicolò Ludovisi saranno costruiti la Neviera (1651) e lo splendido Portale detto Ludovisi, che registra l'ampliamento della cittadina con il nuovo borgo ad est del monastero dei Celestini.

E' degli inizi del '600 la tela raffigurante la Deposizione, del pittore manierista solofrano Giovan Tommaso Guarini, commissionata da un privato cittadino per la erezione della nuova chiesa della Madonna degli Afflitti. L'Università fa a gara con la committenza baronale. E' il trionfo del Barocco napoletano: la fontana pubblica superiore (1605), a fianco del Convento dei Celestini; il convento dei Domenicani, con la chiesa annessa della Madonna del Rosario (costruita sulla chiesa più antica di S. Maria di Costantinopoli), è voluto dall'Università (fine ‘500) ed è terminato, tra il secondo e il terzo decennio del ‘600, con lasciti testamentari di Carlo Gesualdo e con donazioni di casa Ludovisi; la piazza centrale, di bellezza incomparabile, prende la sua forma attuale nel corso del ’600, prima per volontà di Carlo e dell’Università, poi per autonoma scelta cittadina con la fontana (1688) e il Cappellone (seconda metà del ‘600).

 

Carlo Gesualdo, Principe dei Musici

Carlo Gesualdo nasce a Venosa l’8 marzo del 1566 da Geronima Borromeo e Fabrizio Gesualdo. Zio materno di Geronima è Giovan Angelo Medici, pontifice con il nome di Pio IV. Carlo Borromeo, grande riformatore del Concilio tridentino, arcivescovo di Milano, e futuro santo, è fratello di Geronima.

Il matrimonio di Fabrizio con Geronima proietta i Gesualdo nel gotha delle famiglie aristocratiche italiane. Il segno più tangibile dell’ascesa è la nomina a Principe di Luigi IV, e  del ventunenne Alfonso Gesualdo a cardinale. Alfonso sarà poi arcivescovo di Conza ed infine arcivescovo di Napoli.

Carlo trascorre l’infanzia a Taurasi, sino alla morte della madre per parto. Ha solo sette anni. Su sollecitazione di Carlo Borromeo, va a Roma con il fratello Luigi, ospite dello zio cardinale Alfonso, per essere avviato alla carriera ecclesiastica. Dopo qualche anno torna a Napoli nella casa paterna,  il luogo per eccellenza della sua educazione musicale. Il padre di Carlo è un mecenate di musicisti, fra cui il barese Stefano Felis e il belga Jean de Macque.

Felis nel 1586, nel suo II libro dei Mottetti a 5 voci, inserisce dell’‘illustrissimo don Carlo Gesualdo’: Ne reminiscaris Domine delicta nostra (‘Signore, dimentica i nostri peccati’).

L’anno successivo, Jean de Macque, nelle sue Ricercate et canzoni francesi a quattro voci,  accogliendo tre composizioni di Carlo, nella dedica dirà: “Conoscerà a pieno il mondo, quanto ella habbia perfetta cognitione della Musica, et con quanto studio si sia ben impiegata”.

Carlo, oltre che compositore, è anche un grande virtuoso di cembalo, liuto, chitarra, e, all’occorrenza, cantante.

La morte del fratello maggiore Luigi (1584), sconvolge il destino di Carlo. A lui tocca l’eredità degli oltre 20 feudi paterni e il potere del casato. Nel 1586, a venti anni, Carlo sposa la cugina Maria, figlia di Sveva Gesualdo e Carlo d’Avalos, esponente di uno dei casati più potenti del viceregno di Napoli. Maria è al terzo matrimonio ed è al ventiquattresimo anno di età. Da lei due anni più tardi nascerà un figlio, Emanuele.

E’ noto il duplice omicidio di Maria, adultera, e del duca Fabrizio Carafa, nel palazzo del Duca di Torre Maggiore, in piazza San Domenico a Napoli, nella notte fra il 16 e il 17 ottobre del 1590. L’omicidio non è un delitto, ma un diritto: così impongono le ragioni del casato per la difesa del patrimonio e dell’onore, sancita dal costume e dalle leggi. La protezione del Viceré completa l’impunità e impedisce la vendetta dei Carafa. Carlo si allontana in via prudenziale da Napoli, portandosi a Gesualdo dove dimora circa un anno.

 

Matrimonio con Leonora d’Este e pubblicazione dei primi quattro libri di Madrigali

Nel febbraio del 1594, Carlo sposa Leonora d’Este, cugina di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara. Leonora porta, oltre la cospicua dote (80.000 ducati), lo status elevato degli d’Este, la parentela con tutti i grandi della Penisola, e soprattutto la splendida cultura musicale della corte di Ferrara, all’avanguardia in Italia e in Europa per la musica artificiosa e ricercata, e per i suoi maestri, cantori, suonatori, compositori,  gruppi canori femminili, di monache.

Alfonso Fontanelli, agente di Alfonso II Duca di Ferrara e letterato e musico egli stesso, nell’incontrare Carlo prima che giunga a Ferrara scrive al suo Signore:

“Il Principe se bene a prima vista non ha presenza di quello ch’è, si fa però di mano in mano più grato, et io per me mi compiaccio sufficientemente dell’aspetto suo. Non ho visto la vita perché porta un palandrano lungo quanto una robba da notte, ma dimane credo sarà vestito gaiamente. Raggiona molto et non dà segno alcuno, se non forse nell’effige, malenconico. Tratta di caccia e di musica, et si dichiara profesore dell’uno et dell’altra. Sopra la caccia non s’è esteso meco più che tanto, perché non ha trovato da me troppo rincontro, ma della Musica m’ha detto tanto ch’io non ne ho sentito altretanto in un anno intiero. Ne fa apertissima professione et espone le cose sue partite a tutti per indurli a meraviglia dell’arte sua. ... Dice d’haver lasciato quel primo stile et d’essersi messo all’imitatione del Luzzasco da lui sommamente amato et celebrato, benché dica ch’egli non habbia fatti tutti i madregali col medesimo studio, come pretende mostrare a lui stesso.”

Dal matrimonio e da un duplice soggiorno a Ferrara nascono straordinarie opere artistiche. La pubblicazione del Primo e il Secondo libro dei Madrigali (1594) è frutto dell’esperienza musicale napoletana. Il Terzo e il Quarto libro dei Madrigali (1595), segnano  il distacco dal primo stile, la rottura con gli schemi petrarcheschi costruiti sull’armonia di testo musicale e parola, e l’abbandono del vincolo del testo poetico e dello stile classicheggiante di Torquato Tasso. La sua musica è una superba sintesi del suo genio innovativo e delle culture musicali d’avanguardia dell’intera Penisola, non ultima quella ferrarese di Luzzasco Luzzaschi.

Dopo un breve soggiorno a Venosa, a fine 1597, Carlo tornato nel suo feudo irpino Gesualdo, per restarvi fino alla morte. Sul modello delle corti padane, il castello ospita un cenacolo dei musici più affermati e ricercati d’Italia: Scipione Stella, Giandomenico Montella, organista e suonatore d'arpa e di liuto; Fabrizio Gazzella; Fabrizio Filomarino, virtuoso della chitarra a sette corde; Antonio Grifone,  maestro di viola ad arco; Rocco Rodio, teorico; Scipione Dentice, virtuoso di cembalo.

Nel’ottobre del 1600,  all’età di cinque anni muore Alfonsino, il figlio avuto da Leonora. Carlo scrive a suo cognato, il Duca Cesare d’Este:

“Don Alfonso mio, dopo essere stato travagliato d'una gravissima infermità di febre con flussi per sedici in decissette giorni, il signor Dio l'ha voluto con sé nella sua santa gloria. Di questo così acerbo avvenimento, successo a casa mia, giudico esser obbligo mio per molti rispetti di darne parte all'Altezza Vostra. ...non si poteva presentare in questo mondo flagello maggiore di questo, [io] lo vado temperando al meglio in considerare che così è stata la volontà di Nostro Signore”.

 

Sacrae cantiones e Responsoria

Nel 1603, Carlo è vittima di una fattura e di  un avvelenamento:  poculi amatori di mestruo, umori vaginali e sperma. Per un anno è sospeso fra la vita e la morte. Una sua concubina, Aurelia d’Errico, con la complicità di una strega locale, ne è l’autrice.

“Costa de confessione extraiuditiali del’Aurelia per tre testimonij che dicea che ... havea dato il menstruo al Principe et fatto altre fatture che li volesse bene et non per farli male. [...]

 

Costa per più testimonij in genere de’ quattro fatture trovate consistentino in due statuette trafixe con chiodi, spingoli et altre ligame per il corpo, et due altre consistenti una in un masco trovato sotto terra avante la portella del Castello per dove passava il Principe, et un’altra in due ferri con certe monetelle di quinto dentro un pertuso nel muro del Castello, et dentro il mascho erano capelli, ongue [unghie] di morti et altre forfantarie. [...]

Che il mestruo è spetie di veneno, che, non rimediandosi di presto, reduce la persona alla morte, costa per depositione di quattro dotturi fisici, li quali dicono anco che giudicano l’indispositione del Principe esser soprannaturale, causata da bevande noiose [nocive] et altre fatture, poiché tanti rimedij naturali appropriatoli non hanno giovato né giovano et che dimostrano li sintomi.”

Esorcisti, inciarmatori, e medici si alterneranno per anni al suo capezzale e a quello della moglie, per estirpare il demonio da quella che è ritenuta una dimora di morte. Leonora e Carlo credono che Alfonsino sia stato vittima del Maligno e dei patti stipulati con lui dai nemici di casa Gesualdo. 

Il 1603 è anche l’anno in cui sono edite due raccolte di Sacrae cantiones, a cinque, sei e sette voci, con testi in latino. A curarne l’edizione è il frate Giovan Pietro Cappuccio, lo stesso che curerà nel 1611 la pubblicazione dei Responsoria, composizioni scritte per la Settimana Santa. E’ il trionfo della cultura della Controriforma: i testi scritti dei Responsoria sono quelli codificati da papa Pio V. Ma le forme sono però proprie di Carlo Gesualdo: la musica è “terrificante e tragica”,  “bella e sublime”.

Del 1611 è pure la pubblicazione del Quinto e Sesto libro dei Madrigali, stavolta attraverso la stamperia volante di Giacomo Carlino, ospitata nel castello di Gesualdo. Tutti e sei i libri dei madrigali saranno stampati due anni dopo, nel 1613; per la prima volta nella storia della musica, appariranno in partitura sullo stesso testo per più voci, dall’editore Pavoni a cura del liutista Simone Molinaro.

 

Morte ed eredità musicale di Carlo Gesualdo

Emanuele a Venosa cade rovinosamente da cavallo e muore il 20 agosto 1613. La sua morte accelera quella di Carlo, che muore di lì a poco, l’8 settembre. Nel testamento egli inutilmente dispone:

“Se il postumo che dovrà nascere da detta Donna Polissena serà femmina, in questo caso istituisco mio herede universale sopra di tutti li miei beni come di sopra detta Donna Isabella mia nipote...che debba pigliare per marito il primogenito di Don Cesare [Gesualdo] et in difetto del primo debba pigliare il secondo et in difetto del secondo il terzo,  et così s’intende degli altri per ordine, et mancando la linea dì detto Don Cesare, debba pigliare nello stesso ordine uno dei figli di Cesare Gesualdo”.

Ma il casato si estinguerà: nascerà un’altra femmina, Eleonora. Sua moglie Leonora raggiungerà Modena dove  morirà nel 1637. La nipote Isabella, per intervento del re di Spagna, sposerà nel 1622, a soli dodici anni, Nicolò Ludovisi, nipote del papa Gregorio XV, e morirà a 19 anni; l’unica figlia, Lavinia, morirà cieca a meno di 8 anni. Eleonora, la seconda nipote di Carlo, morirà anziana in un convento napoletano, dopo aver rinunciato a tutti i suoi beni a favore della sorella e della madre.

Carlo vivrà ancora attraverso la pubblicazione di un nuovo libro, il sesto di Madrigali a sei voci, raccolti e curati da un musico della sua corte, Muzio Effrem, edito a spese di Leonora d’Este nel 1626.

E soprattutto vivrà attraverso la sua musica imperitura: le composizioni  sacre, al pari di quelle profane, sono caratterizzate da una tecnica espressiva dove signoreggiano sentimenti ed emozioni forti. Carlo resterà il principe dei musici, il madrigalista che ha rotto l’equilibrio fra il testo musicale e la parola, il musico dell’inquietudine eretta a sistema, l’innovatore del cromatismo esasperato, della scomposizione tonale, della dissonanza. 

Igor Strawinsky con il Suo monumentum pro Gesualdo del 1960, dopo un silenzio durato secoli, sottolineerà la sua importanza nella storia della musica e la sua straordinaria attualità espressiva. Lo seguiranno tanti suoi contemporanei e più vicini a noi: Claudio Abbado, Lucio Dalla, Pino Daniele, Franco Battiato, Roberto De Simone.





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Webmaster Franco Caracciolo - e-mail: carlogesualdo@altervista.org